lunedì 16 dicembre 2013

La protesta dei forconi

 
I "forconi" a Torino
Osservo con crescente preoccupazione quello che sta accadendo nelle piazze delle principali città italiane dove da quasi sette giorni ormai prosegue la cosiddetta "protesta dei forconi". Molte sono le analisi fatte dai vari commentatori politici sulle principali testate giornalistiche italiane, ma una particolare attenzione riserverei a quella proposta da Claudio Sardo su L'Unità di domenica 15 dicembre, soprattutto per il percorso di analisi che presenta.
Sardo parte dalla constatazione che i principali leader della protesta, anche se difficili da identificare per via della consistenza molto confusa delle richieste e della fasce sociali che vi partecipano, sono di estrazione berlusconiana. Partendo da Mariano Ferro, che diede vita alla protesta dei forconi in Sicilia proprio all'indomani della vittoria di Rosario Crocetta e quindi alla sconfitta per il centro-destra diviso tra il berlusconiano Sebastiano Musumeci e l'autonomista Giovanni Micciché. Una sconfitta che cambiò radicalmente gli equilibri di potere in Sicilia, consolidati ormai lungo l'asse PDL-MPA in quanto eredi del sistema di potere democristiano. 
Sulla stessa linea, la "protesta dei forconi" prende piede il 9 dicembre, circa 12 giorni dopo il voto che ha confermato la decadenza di Silvio Berlusconi dal parlamento. Appare quindi il legame che esiste tra le vicende del leader del Centro-Destra e questa protesta che si arroga il diritto di rappresentare tutto il popolo italiano. Altro elemento da tenere in considerazione nel confermare questo legame di cui ci parla con chiarezza Sardo, ma non solo, è la natura delle richieste che provengono dalla piazza, in primis le dimissioni di un governo che i "forconi" ritengono illegittimo, proprio all'indomani della decisione della nuova Forza Italia di ritirare il suo sostegno al premier Letta. Altri temi sono difficili da individuare in quel marasma di malumori che caratterizza queste piazze, saltano all'occhio la richiesta di uscire dall'euro, le dichiarazioni di sostegno al leader nazionalista ungherese Viktor Orbàn, le frasi antisemite, l'escalation della violenza, fisica e verbale, ma soprattutto l'avversione verso Equitalia. Un insieme di populismo, anti-statalismo e nichilismo che rappresentano il nocciolo della cultura politica proposta per vent'anni dal centrodestra berlusconiano.
Non possiamo considerare questa protesta frutto di una operazione di Silvio Berlusconi e del suo team politico, essa si caratterizza come la reazione di quella parte consistente del elettorato berlusconiano che con la fine del suo ventennale leader, non è riuscita a trovare un'altra rappresentanza nel Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano o nel Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, e che ha coagulato intorno a se la disperazione di alcune di quelle fasce sociali che sono state maggiormente colpite dalla Crisi (esodati, piccoli commercianti, ambulanti, "padroncini", piccoli autotraspostatori).
Infine nel concludere ritengo che la soluzione a quello che risulta essere un elemento di forte instabilità per la democrazia, rappresentato anche dal gesto di sostegno di alcuni membri delle forze dell'ordine che hanno abbandonato quella neutralità politica che devono necessariamente possedere, sia ritrovabile nella crisi del centro-destra. Se questi saprà uscire dal trauma del post-Berlusconi riconsolidando il suo elettorato intorno a una forza politica democratica e riconducibile ai partiti popolari europei, il sistema democratico si riconsoliderà; se invece questa operazione dovesse fallire, le forze democratiche, che rimarrebbero quindi rappresentate unicamente dalle sinistre e dai sindacati, temo non avranno la forza per poter contenere questa spinta distruttiva e anti-sistemica. 
In democrazia gli schieramenti politici devono affrontarsi utilizzando i meccanismi che il sistema mette loro a disposizione e legittimandosi a vicenda, se invece buona parte di queste decide di ricorre a strumenti diversi per catturare il consenso (come la demagogia e il populismo che portano alla demonizzazione dell'avversario e quindi alla sua delegittimazione), inevitabilmente il sistema sarà destinato a collassare.

venerdì 13 dicembre 2013

Renzi, il nuovo segretario del PD

Matteo Renzi alla festa per la vittoria
Il risultato delle primarie è indiscutibile e consegna la vittoria a Matteo Renzi con 1.887.396 voti (68%), contro i 505.800 (18%) di Gianni Cuperlo e i 395.715 (14%) di Pippo Civati. Si potrebbe criticare la composizione dei vari elettorati, ovvero la decisione di aprire le votazioni per la segreteria del Partito Democratico a tutti i cittadini italiani che abbiano dichiarato di essere elettori del Centro-Sinistra e non solo agli iscritti. Personalmente ribadisco di essere stato avverso a questa decisione di cosiddetta "apertura", unicamente perchè si tratta di una logica che impoverisce il significato che la tessera, e quindi l'iscrizione al partito, possiede: un'espressione di appartenenza e di impegno politico. Devo però riconoscere che alla luce delle proteste dei cosiddetti "forconi", scoppiate nelle principali piazze italiane all'indomani delle votazioni (lunedì 9, per essere esatti), l' "apertura" si è dimostrata una scelta efficace, perchè ha esternato l'affetto di quasi 3 milioni di italiani alla democrazia e ai suoi meccanismi, in contrasto con i metodi squadristi e sovversivi dei "forconi" che troppo ricordano l'aggressività della propaganda fascista degli anni Venti.
La vittoria di Renzi senza ombra di dubbio segna una discontinuità con il passato, l'uscita di scena degli ultimi dirigenti che si erano formati nel PCI segna la chiusura delle ostilità tra coloro che riconoscevano le rispettive identità sulla base delle precedenti appartenenze partitiche (ex-DS, ex-Margherita, ex-PPI, ex-PSI. ex- ... ). Con la segreteria Renzi, e con la nuova generazione che ora è incaricata di assumere il ruolo dirigente del partito, si apre la possibilità di avviare un nuovo percorso fondativo per il PD, che veda la fine della correnti e l'affermarsi di un'identità nuova e originaria, che trova le sue fondamenta nei valori del progressismo europeo.
E' importante quindi che si metta in campo un'operazione di riconsolidamento del PD a livello locale, attraverso l'azione dei circoli e delle segreterie regionali, due tasselli fondamentali per connettere i cittadini con gli organi dirigenti nazionali e quindi con le istituzioni statali. Di pari passo bisogna rafforzare questa operazione di fondazione attraverso l'affermazione di quelli che sono i valori fondativi della Sinistra, come il rispetto della Costituzione, i diritti civili, l'uguaglianza sociale e la redistribuzione della ricchezza. Partendo quindi dalle realtà locali, appare necessario rilanciare la proposta programmatica di questo nuovo PD attraverso la promozione di iniziative che ricolleghino il partito a quello che è il suo terreno sociale di riferimento: le fasce più deboli della popolazione, come i precari, gli "esodati", i piccoli imprenditori, i lavoratori dipendenti, gli operai, i giovani senza lavoro.
Per rilanciare il partito e quindi consolidare la democrazia, salvaguardandola da quelle spinte populistiche e demagogiche che ora si alimentano del diffuso malcontento provocato dall'inerzia decisionale delle istituzioni governative, bisogna tornare a parlare alle fasce sociali che più stanno sopportando il peso di questa crisi economica. Se non saremo noi e le organizzazioni sindacali a convogliare le loro istanze, esse comunque le esprimeranno attraverso strumenti che però non saranno quelli democratici, perchè ai loro occhi i partiti saranno quelle organizzazioni che nel momento in cui avrebbero dovuto farsi ancora più carico della voce e delle loro difficoltà, si sono rinchiusi in se stessi, giustificando le accuse dei demagoghi anti-statalisti come Beppe Grillo che accusano il PD e gli altri partiti di essere "dei ladri, corrotti e collusi. Dei cadaveri!".
Ora quindi abbiamo l'occasione di rilanciare il partito e consolidare la democrazia in Italia, e questo possiamo farlo solo parlando al Paese e ripartendo da Sinistra

martedì 12 novembre 2013

Robert Capa e la Guerra Civil

Dal 10 ottobre al 19 gennaio è allestita presso la Villa Manin di Passariano di Codroipo (UD) una mostra sugli scatti del padre dei fotoreporter di guerra, Robert Capa. La mostra raccoglie centinaia di scatti del fotografo ungherese oltre ad alcuni spezzoni di video sempre da lui realizzati, soprattutto durante il secondo conflitto mondiale.
Capa, al tempo John Steinbeck, nasce nel 1915 a Budapest da una famiglia ebraica. Giovanissimo si iscrive al partito comunista, ma è costretto presto ad emigrare a causa del crescente potere che il partito nazionalista e antisemita delle Croci Frecciate, guidate del futuro dittatore Ferenc Szálasi, sta lentamente acquisendo. Si trasferisce quindi in Germania alla ricerca di uno sbocco lavorativo come fotografo, cambia anche il suo nome da John Steinbeck a Robert Capa, perchè in una europa fortemente antisemita un nome tipicamente ebraico non può che essere una zavorra per la sua carriera. 
Fin da subito quindi Capa cerca di combattere i vari fascismi che si stanno affermando in tutta europa, utilizzando come arma l'obiettivo della sua macchina fotografica. Nel 1935 allo scoppio della Guerra Civil in Spagna, tra le forze repubblicane e i ribelli nazionalisti di Francisco Franco, Capa decide di unirsi ai combattenti repubblicani per documentare quello che a tutti gli effetti si caratterizza come un crimine contro la democrazia. La Repubblica Spagnola nasce nel 1931 dopo la fuga del re Alfonso XII, le crisi politiche che sconvolgono la fragilissima democrazia portano alle elezioni del 1936 alla vittoria del Frente Popolar, una coalizione di partiti marxisti, e quindi alla reazione della Falange Espanola, i nazionalisti guidati da Franco, che organizzano un colpo di Stato per deporre il governo democraticamente eletto.
Ed è proprio in Spagna che Capa esprime tutte le sue doti, segue per due anni tutti i combattimenti tra le forze lealiste repubblicane e i ribelli nazionalisti e scatta migliaia di foto. Proprio uno di questi scatti mi ha particolarmente colpito, siamo nel 1938, la guerra ormai è perduta per i repubblicani e Capa decide di partecipare alla cerimonia di scioglimento delle Brigate Internazionali (quelle formazioni composte da antifascisti provenienti da tutta europa per difendere la democrazia, tra cui anche i codroipesi Giuseppe Marchetti, Cao Vittorio e Grosso Giuseppe). Proprio qui Capa fotografa un'uomo sui trent'anni, che insieme ai suoi compagni di brigata sta partecipando alla cerimonia.
Questo giovane uomo è in piedi, con lo sguardo fiero a mento alto che guarda probabilmente una bandiera o l'uomo che dal palco sta tenendo un discorso, non ci è dato saperlo, e con la mano destra a pugno chiuso sta facendo un saluto che è una via di mezzo tra quello militare e il vigoroso saluto comunista a pugno teso. I suoi occhi sono dritti, i muscoli della faccia tesi come ad esprimere la fierezza di un uomo che ha percorso migliaia di chilometri, che ha sacrificato molto pur di essere lì, insieme ai suoi compagni a lottare per quello in cui crede: la democrazia e la libertà dei popoli. Però i suoi occhi trasmettono anche qualcos'altro, una misto di rabbia e sofferenza per non essere riuscito a vincere la sua lotta, un'amara delusione che però non lo demoralizza, ma anzi lo sprona a lottare ancora un domani, finchè le forze glielo permetteranno.
Ecco la fotografia di questo giovane uomo mi ha profondamente colpito, raccoglie in se tutta l'umanità di una persona che è disposta a sacrificare tutto per gli altri, per combattere in quello in cui crede, e solo la maestrina di Capa poteva raccogliere questo istante. 
Non ho messo questa fotografia come immagine per questo articolo perchè vi invito ad andare alla mostra a vederla con i vostri occhi. Vi invito a fissare intensamente il suo sguardo per cogliere l'umanità che si nasconde dietro di esso. Osservatelo intensamente e vedrete l'incarnazione di un ideale.

lunedì 4 novembre 2013

Politica e religione, un legame diabolico

Domenica 3 Novembre all'auditorium comunale di Rivignano si è tenuta un'importante conferenza sul significato che la Bibbia ha per le tre principali confessioni religiose monoteiste: l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo. Ospiti dell'evento, organizzato dall'amministrazione comunale in occasione dei festeggiamenti per il cinquecentenario dell'istituzione del ghetto di Rivignano, erano i rabbini Luzzato e Locci, il monsignor Genero e l'imam Aziz. 
Obiettivo della conferenza era l'analisi da tre diversi punti di vista del libro sacro comune a tutte e tre le confessioni (anche se chiamato con nomi diversi: Torah, Bibbia e Coran). L'importanza simbolica di questo incontro risiede nel dialogo che con il Concilio Vaticano II si è ufficialmente aperto tra le tre confessioni, nel tentativo di "convivere pacificamente" piuttosto che di riunire i tre diversi credo, accomunati oltre che dalla Bibbia, anche da una comune visione dell'aldilà e soprattutto da quell'unico dio che proprio come la Bibbia si differenzia unicamente nel nome con cui viene chiamato: Yahwe, Dio, Allah.
Non intendo soffermarmi troppo sulle argomentazioni presentate dai vari relatori sulle diverse interpretazioni che le varie confessioni danno del libro sacro, anche se sono molto interessanti per comprendere le forti comunanze e le altrettanto profonde differenze che hanno portato alla formazione di tre diverse confessioni da una comune matrice religiosa, per concentrarmi invece sul punto che ritengo interessante sviluppatosi nella fase del dibattito: se tutte le fedi professano l'amore e la fratellanza come valori universale, anche tra popoli diversi, perchè scoppiamo conflitti religiosi?
Principalmente è dovuto alla politicizzazione del pensiero religioso. Questo fatto non è logicamente necessario, essere fedeli non significa doversi necessariamente armare degli strumenti politici al fine di applicare la propria visione della vita a tutta la popolazione. In quasi tutti i conflitti, la religione è stata usata come giustificazione della violenza e della ferocia tra i gli avversari. E' altresì facile indurre timori e paure nella popolazione annebbiando la realtà, individuando una sorgente unica di tutti i mali su cui concentrare la rabbia e la ferocia degli oppressi, distogliendola dalla reale sorgente della disuguaglianza e quindi mantenendo un forte controllo sulle masse.
La soluzione a questa politicizzazione risiede, secondo i teologi ebraici, nella Bibbia stessa quando questa dice che esistono degli specifici doveri sociali rivolti a tre specifiche categorie:
- All'orfano, colui che non ha genitori e quindi ha nessuna forma di sostegno;
- Alla vedova, colei che non avendo il marito ha perso il sostegno (essendo il marito un valido sostituto dei genitori);
-Allo straniero, colui che non ha niente e nessuno, ne sostegno ne senso di appartenenza perchè non possiede una terra.
Ed è proprio quest'ultimo valore (ci tengo ancora a sottolineare "sociale" e non "religioso") il più disatteso.
A questo punto il dibattitoevolve, toccando un altro tema fondativo per il nostro vivere in società, perché da questa constatazione si deduce quanto la società moderna non si basi su principi e valori che provengono dalla Bibbia, bensì da altre fonti che i teologici trovano in quella che chiamano la "visione rettangolare", ovvero la televisione (e oggi anche internet e gli altri mass media). Questa nuova visione ha distrutto la capacità dei singoli di porsi le domande giuste, in questi ultimi trent'anni soprattutto ha lentamente distrutto il pensiero critico dei soggetti. Eliminando le "domande", la visione rettangolare ha distrutto il più valido strumento di crescita personale, che permetteva di allargare lo sguardo al di là del singolo problema per ritrovare la soluzione più efficace e duratura.
Nella Torah (nella Bibbia, nel Coran), Dio domanda all'Uomo non "cosa hai fatto", ma "dove sei". Questa domanda si ritrova in altri 3 passi della sacra scrittura e viene sempre tradotta non in "perchè" ma in "come mai". Il "perchè" cerca la responsabilità negli altri al di fuori di noi stessi, quindi in un certo senso deresponsabilizza l'Uomo e lo porta a proiettare sugli altri i propri problemi, intrappolando in una logica di autogiustificazione morale che lo conduce a compire azioni immorali (come gli eccidi e il razzismo).
Mancando questa visione critica, questa capacità di porsi le domande "giuste", l'individuo non riesce più a capire i meccanismi che muovono la realtà di ogni giorno; tutto ciò che accade nel mondo è quindi calato nella realtà in cui viviamo e quindi non riusciamo a capire cosa significhi per un ebreo riposarsi il sabato anzichè la domenica, e cosa significhi per una donna musulmana coprirsi il capo con un velo. Non riusciamo quindi a rimanere insieme anche se diversi, e la globalizzazione porta ad una omologazione di massa dovuta proprio a questa incapacità di comprendere e di convivere con queste differenze. La globalizzazione porta ad una fittizia uguaglianza basata sulla distruzione delle diversità per far posto ad una nuova morale che non lascia spazio all'individuo, che viene così fagocitato dalla massa e rimodellato secondo uno schema ben preciso e precostituito.



lunedì 14 ottobre 2013

Una scelta di campo


Forse alcuni di voi avranno notato che a partire da gennaio il simbolo di Sinistra Ecologia e Libertà è sparito dal front di questo blog. La motivazione è semplice: a dicembre ho consegnato le mie dimissioni dal partito con una lettera che ho pubblicato anche qui.
Dopo sei mesi di indecisione, ho infine deciso di tornare in campo, iscrivendomi a quel Partito Democratico bersaglio delle critiche più severe sia dai giornalisti che dall'elettorato di sinistra. Non nascondo di essere stato anche io un critico terribile verso la principale forza del centro-sinistra, e conservo ancora molte riserve sull'identità e sui fondamenti politici di questo partito. Proprio in virtù di questo ho quindi sentito una spinta a partecipare attiviamente alle sua attività, cercando di dare il mio contributo a chiarire quali siano le basi ideologiche di questo PD, quale idea di società e quindi quale tipologia di azione mettere in campo (essere un partito-elettorale o un partito-moderno).
Le difficoltà quindi non mi hanno spaventato, anzi sono state uno dei motivi che mi ha portato a riattivarmi politicamente dopo mesi di incertezza e di indecisione.
La seconda motivazione discende da questa, perchè prende spunto dalla constatazione delle difficoltà che stanno bloccando l'attività del partito e quindi impediscono a quella che risulta essere (nonostante tutto) la principale forza progressista nel nostro Paese, di produrre effittivamente una linea politica chiara e quindi agire concretamente sulla realtà (sulla società, sull'economia e sulla politica del nostro Paese, e non solo).
Terza motivazione è la constatazione di quanto il PD sia effettivamente l'ultimo "partito" rimasto in una Italia ormai preda di quei partiti leaderistici che senza i loro Signori sparirebbero come neve al sole. Purtroppo SEL è una di queste forze. Nata intorno alla figura di Nichi Vendola, ancora non è riuscita a liberarsi da quel legame fondamentale che collega al suo leader fondatore. Sotto certi aspetti quindi è anch'esso figlio del berlusconismo e quindi per un democratico e progressita che crede fermamente nel ruolo di guida che hanno i partiti nell'analisi e nella formazione della società, il presupposto da con cui nasce anche SEL è già fuori dalla mia tavola valoriale.
Come già molte volte ho espresso su questo blog, credo fermamente nella necessità per una democrazia di avere dei partiti. Così come i nostri padri costituenti ebbero a dire: "non esiste una democrazia senza partiti"; così anche io mi riconoscono pienamente in questo principio, quindi ritengo fondamentale partecipare alle attività del Partito Democratico, al fine di respingere l'offensiva delle forze populistiche e leaderstiche che se incontrastate porteranno alla dissoluzione del sistema democratico, e che aimé sono presenti anche all'interno del partito stesso.
Al contempo rimango però ben conscio dei rischi che dei partiti forti possono rappresentare per il sistema politico, ovvero sfociare il quella che è stata denominata la "partitocrazia" della Prima Repubblica.
Sarà quindi fondamentale partire da questo punto, formare una piena coscienza nella cittadinanza del ruolo fondamentale che possiedono i partiti (con i loro rischi), in modo da riaccendere la partecipazione e quindi consolidare definitavamente il sistema democratico, e allo stesso tempo ritornare alle questioni fondamentali, ai temi, lasciando la mediaticità e gli slogn privi di contenuti ai leader e ai loro sudditti.

mercoledì 2 ottobre 2013

Il giocattolo si è rotto!


Premetto che questo articolo conterrà degli errori grammaticali dovuti alla necessità di scriverlo e di pubblicarlo in fretta visto il rapidissimo evolversi degli eventi che stanno sconvolgendo la politica italiana.
Oggi 2 Ottobre 2013 sarà un giornata storica per il nostro paese, perchè dopo la frattura scatenata da Silvio Berlusconi che ha imposto ai suoi ministri di uscire dal governo delle "larghe intese" guidato dal PD Enrico Letta, il voto di fiducia che si è tenuto oggi ha frantumato a metà e in modo irreparabile il fronte del centro-destra.
50 parlamentari del PDL su 90 hanno dichiarato che avrebbero comunque votato la fiducia al governo nonostante la linea dura del loro leader, costringendo quest'ultimo a compiere una rapidissima inversione a U (che Enrico Mentana ha già definito una "retromarcia su Roma") ripudiando tutte le esternazioni fatte dai fedelissimi di Berlusconi in questi due giorni.
I parlamentari "dissidenti" (o "responsabili" come hanno preferito definirsi loro) hanno rifiutato l'adesione alla rinata Forza Italia e dopo aver votato la fiducia al governo Letta, hanno dichiarato pubblicamente che a breve termine prenderà vita una forza politica di centro-destra alternativa a Berlusconi (ma non antagonista). Grazie al sostegno di questa formazione sarà possibile proseguire con un governo di larghe intese e portare finalmente avanti quelle riforme necessarie per mettere in sicurezza lo Stato e l'economia italiana.
Fondamentale è quindi ora mantenere compatto il fronte del centro-sinistra e il PD in particolare, costringendo l'ormai sfasciato avversario sul campo delle riforme fondamentali per lo Stato:
1) elettorale, che abolisca il "Porcellum" e ci riconsegni un sistema politico stabile;
2) fiscale, che riduca la tassazione sul lavoro (quindi abbassamento dell'IVA e dell'IRPEF);
3) economica, un patto di stabilità che metta in sicurezza i bilanci dello Stato e delle amministrazioni pubbliche.
Quindi un Letta-bis che abbia degli scopi precisi, terminati i quali si procederà allo scioglimento delle Camere e a nuove votazioni per ricomporre un Parlamento capace di produrre politica e non nuovi mostri.
E' necessario infine che questi obiettivi vengono raggiunti in fretta, perchè la frattura che si è creata tra Berlusconi e la sua componente moderata, porta alla luce un'operazione di larga scala che punta alla ricomposizione di un blocco di centro cattolico sullo stampo della vecchia Democrazia Cristiana (lo si deduce dai personaggi che stanno guidando questa operazione, come Formigoni, Giovanardi, Lupi e Casini). Un'operazione pericolosa per la Sinistra e per il nostro sistema politico, che dobbiamo arginare in quanto progressisti e democratici fin da subito, partendo da quel congresso del PD che ora vedrà estromesso Renzi e un Letta trionfante che deve essere unitariamente sostenuto fino al raggiungimento di questi tre obiettivi fondamentali per la stabilizzazione dello Stato e della democrazia italiana.

martedì 27 agosto 2013

Un museo della Resistenza Friulana

Il sottoportico con le porte delle celle di detenzione
Ci sono storie facili da dimenticare perché scomode o tragiche per i ricordi che fanno riaffiorare anche solo risentendo i nomi dei protagonisti. Quando però una storia diventa così violenta da lasciare un solco indelebile nella memoria di un collettività e di un territorio, allora non esiste volontà o dolore capace di rimuoverla del tutto. E’ questo il caso della Caserma Piave di Palmanova.
Se mai vi capiterà di camminare per le geometriche strade della “città stellata”, gioiello dell’architettura bellica veneziana, scoprirete che gli abitanti più anziani di Palmanova mostrano ancora un certo timore non appena sentono il nome del fiume reso famoso dalla Grande Guerra. Nelle loro menti è ancora lucido il ricordo di quelle urla strazianti che provenivano dalle celle di tortura della Caserma del Capitano delle S.S. Pakibus. Flagellazioni, torture, impiccagioni, se le mura della Caserma Piave potessero parlare racconterebbero delle storie così terribili da far rivoltare lo stomaco a noi giovani che la guerra siamo abituati a vederla romanzata al cinema.
Molte di quelle storie tragiche sono ancora leggibili sulle mura delle celle della Caserma, attraverso le scritte che i giovanissimi detenuti (l’età media del combattente partigiano era di 22 anni) hanno lasciato come monito per coloro che li avrebbero seguiti in quel girone infernale. La più terribile di queste era la cosiddetta “cella paradiso”, così rinominata perché una volta entrati si era sicuri di non uscirci più vivi.
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, la Coop Consumatori e il comune di Palmanova, hanno deciso di allestire proprio in questo luogo il Museo Regionale della Resistenza perché dimostri una volta per tutte quanto sia falso quel motto che dice che il Fascismo è il cugino buono del Nazismo. Anche se il comandante Pakibus era agli ordini diretti del Terzo Reich, i suoi aguzzini come i repubblichini della “banda Ruggero” o il milite Piccini, erano italiani ufficialmente inquadrati nella polizia territoriale della Repubblica di Salò, ma in realtà desiderosi solo di sfogare la propria violenza contro quei partigiani che consideravano traditori dell’Italia Fascista.
Un museo che prendendo spunto dal Museo della Resistenza di Torino, cercherà di trasmettere ai visitatori e alle scolaresche le storie, le sofferenze e i valori che hanno animato le migliaia di friulani che hanno combattuto per la liberazione dal nazi-fascismo, e che permetterà di capire quanti sacrifici sia costata la nostra democrazia  e perciò quanto importante sia conservarla e proteggerla dalle derive autoritariste e populistiche che, soprattutto in periodi di crisi economica come questi, cercano di delegittimarla, seguendo quello stesso schema che negli anni Venti i fascisti usarono contro la fragile democrazia dell'Italia Liberale.

lunedì 19 agosto 2013

La protesta al CIE di Gradisca

Copia dell'articolo di Giulia Travain, pubblicato su www.progre.eu


I reclusi in rivolta sul tetto del CIE. Foto di Giulia Travain
Ieri a Gradisca d’Isonzo (Gorizia) si è tenuta una manifestazione per chiedere la chiusura immediata del CIE, considerato – per le condizioni in cui versano gli immigrati lì trattenuti – il peggiore d’Italia.
Nel CIE di Gradisca non esistono spazi comuni, né una mensa: nelle stesse stanze in cui si dorme, si consumano i pasti e passano le ore i ragazzi rinchiusi. Ai trattenuti, qui tutti uomini, non è permesso fare una partita di calcetto, e nemmeno è concesso avere fogli di carta per scrivere una lettera. Sono sorvegliati 24 ore su 24 da polizia ed esercito. Spesso – denunciano gli organizzatori della manifestazione – vengono anche somministrati psicofarmaci.
La protesta di ieri, promossa dai Centri sociali Nord Est e altri collettivi autonomi, ha visto anche la partecipazione di esponenti di SEL, Rifondazione Comunista e M5S, nonché di diversi assessori regionali e comunali del Friuli.
Nei giorni scorsi, peraltro, erano già intervenute la parlamentare di SEL, Serena Pellegrino che, in seguito alla visita del centro, ha chiesto un immediato incontro con il prefetto per «garantire i principi umanitari e la tutela dei diritti civili in questo luogo di disperazione. Diritti che riguardano tutti: detenuti e forze dell’ordine»; e la presidentessa della Regione, Debora Serracchiani, la quale ha dichiarato essere necessaria la chiusura immediata dei centri e l’auspicio che il governo si occupi quanto prima della questione.
Tra altoparlanti, striscioni e testimonianze, i trattenuti hanno preso parte alla manifestazione dal tetto interno della struttura al grido «noi non siamo criminali, vogliamo la libertà e grazie a tutti voi per essere qui», lamentando, tra l’altro, il fatto che gli fosse precluso avere notizie del ragazzo scivolato dal tetto qualche giorno fa in un tentativo di fuga: «non sappiamo nemmeno se sia vivo o morto, non ci dicono niente!».
Anche a chi ha provato a visitarlo all’ospedale, secondo quanto dichiarato da una tra gli organizzatori, non è stata fornita alcuna informazione sulle sue condizioni di salute.
La situazione del centro per ora resta invariata. In mancanza di un’azione di governo e del Ministero degli Interni, le possibilità di azione sui centri da parte dei governi territoriali resta limitata, ma se non altro l’agitazione di questi giorni ha portato maggiore consapevolezza alle istituzioni regionali, che ora possono provare a operare congiuntamente a quelle di altre regioni perché, a livello nazionale, si muova qualcosa.
La legge Bossi-Fini va ripensata, la sua inefficienza è stata ormai più volte dichiarata dalle organizzazioni, enti e operatori che lavorano in questo campo.Tuttavia, pare che la riforma della legge sull’immigrazione non sia una delle priorità dell’attuale governo.
La situazione dei CIE non può però essere ricondotta nell’alveo della stessa riforma, e rimandata a data da destinarsi: prima che un problema politico, i CIE pongono un problema di violazione dei diritti della persona. L’Italia, che aderisce alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e alla Carta dei diritti dell’Unione Europea, non può più permettersi di portare avanti politiche di questo tipo incuranti del rispetto della libertà personale e dei diritti umani.
La politica migratoria è una cosa, l’umanità è un’altra e costituisce un limite per la prima. E qui, è di umanità che si tratta.

mercoledì 14 agosto 2013

L'ùali di Diu

Foto di Davide Bevilacqua
Ieri sera ho avuto il piacere di assistere ad uno spettacolo teatrale all'agriturismo Ai Colonos di Villacaccia di Lestizza, una realtà ormai famosa in tutto il Friuli per la sua produzione culturale di alta qualità. Dopo quasi tredici l'opera del famoso drammaturgo Miklos Hubay, torna in scena tradotta in friulano per il pubblico del friul di miec.
"L'ùali di Diu" narra la vicenda di una donna violentata e condannata a morte con la sola accusa di appartenere ad una minoranza linguistica. Il terribile destino che l'aspetta segna la fine della lingua e della cultura del suo popolo, estinto per sua stessa mano a causa della pavideria dei cosiddetti "rinnegati", uomini appartenenti anch'essi a quella minoranza ma che si sono arresi all'omologazione per avere salva la vita. Neanche l'ultimo disperato tentativo di un giovane seminarista, affascinato dalla lingua di questo popolo che ha scoperto grazie ad una Bibbia tradotta, basterà a salvare la vita alla giovane prigioniera. 
La vicenda si svolge all'interno del carcere in cui la prigioniera attende il compiersi del suo destino, a farle compagnia ci sono solo il rumore passi e delle canzonette degli ufficiali che provengono dai piani superiori, e uno di quei "rinnegati" che ha l'ordine di sorvegliarla ma che ben presto sarà travolto dai rimorsi per essere diventato carnefice del suo stesso popolo.
Il testo dell'opera trasmette una profondità che solo il teatro d'autore può ancora comunicare. Nelle vicende della giovane prigioniera, Hubay vuole rappresentare la nostra società, travolta dal consumismo e da una globalizzazione selvaggia che attraverso le televisioni e la moda spazza via le culture ancestrali che hanno permesso l'evoluzione dell'umanità fino ai giorni nostri. Una globalizzazione che con la pretesa di rendere tutti gli uomini uguali, dichiarandosi quindi puramente democratica, in realtà distrugge la libertà imponendo uno schema omologante al quale non ci si può sottrarre se non a carissimo prezzo. 
Un dramma sociale che ci permette di comprendere quanto la cultura sia fondamentale per l'essere umano, quanto i valori e i principi siano il fondamento del vivere collettivo, e quando questi vengono meno, quando tutto si riduce ad una serie di credenze preconfezionate, anche l'uomo diventa macchina. 
Hubay ci fà capire il pericolo intrinseco della monocultura, una forza omologatrice che spazzando via le differenze arresta l'evoluzione del pensiero umano. Attenzione però, in virtù di queste necessarie e fondamentali differenze non si possono giustificare l'oppressione e la segregazione, perchè una società che decide di chiudersi al mondo diventa omologante al suo interno e quindi da vittima diventa anch'essa carnefice.

martedì 16 luglio 2013

Due pesi e due misure

Ascoltando l'intervista a un giornalista del "Foglio" (il giornale di Giuliano Ferrara per intenderci) a Skytg 24, ho osservato un fatto curioso che da diverso tempo ormai si palesa in diversi salotti televisivi e non: l'equiparazione storica.
Con questo termine intendo definire una specifica operazione che punta alla cancellazione della memoria collettiva attraverso un lento processo di equiparazione forzata tra diversi avvenimenti o periodo storici. Nello specifico, il giornalista del "Foglio" pretendeva di equiparare gli insulti razzisti che il vice-presidente del Senato Roberto Calderoli ha rivolto al Ministro dell'immigrazione Cecile Kyenge, ai diversi soprannomi che in questi ultimi dieci anni sono stati affibbiati a Silvio Berlusconi (il giornalista riportava come esempio il famoso "psiconano" di Beppe Grillo, ma ne esistono molti altri come "il caimano", "papi", "er catrame" e via discorrendo). Chiaramente l'equiparazione è priva di fondamento trattandosi nel primo caso di un insulto razziale, mosso verso un individuo unicamente per il diverso colore della pelle che lo contraddistingue e che quindi rievoca i toni e la violenza tipici della cultura colonialista di metà Ottocento; mentre nel secondo caso si tratta di semplici astrazioni di caratteristiche che l'individuo oggetto di offesa ha esternalizzato nel corso della sua carriera politica (per un esempio "papi" nasce dalle serate trascorse in compagnia di avvenenti signore nella villa di Arcore). Per di più mentre la prima tipologia di insulto può scatenare una sorta di collettiva aggressività nei confronti di un determinato ceppo etnico (in questo caso quello africano), nel secondo caso si tratta per lo più di una sorta di bullismo (anche se in realtà il soggetto offeso ha tutti gli strumenti per difendersi, come ha più volte dimostrato) che non può essere generalizzato contro altri soggetti.
Questo fenomeno di equiparazione è osservabile anche in altri ambiti, come nel caso della storia del Movimento di Liberazione dove si afferma che i partigiani e i fascisti fossero sullo stesso piano dato che entrambi hanno commesso omicidi e violenze. Un giudizio pericoloso perchè la storia non è equa, esistono cioè fazioni che possono essere considerate nel giusto perchè promuovono la libertà individuale e il progresso dell'umanità, e fazioni che invece sono nel torto perchè promuovo logiche di predomino e di oppressione. Agli occhi della storia quindi le violenze e gli omicidi commessi dalla fazione che si trova nel giusto (sempre che questa dimostri che si trattano di eventi saltuari e non sistematici) sono tollerabili come errori o divagazioni sulla strada del progresso, mentre nel caso della fazione che si trova nel torto questi sono sistematici e quindi condannati in toto. 
L'uomo ha bisogno di esempi con cui confrontarsi, se cancelliamo la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, se tutto viene equiparato allo stesso livello, la macchina del progresso sociale e individuale è destinata irrimediabilmente ad arrestarsi.

domenica 7 luglio 2013

Una barbarie senza tempo

Quando ieri pomeriggio aprendo il sito della Gazzetta dello Sport ho visto il reportage quasi non credevo alle parole che stavo leggendo, mi sembrava di leggere un quotidiano della Transilvania del Cinquecento e invece era terribilmente attuale, una news arrivata direttamente dal Brasile, e cioè dall'altra parte del mondo rispetto alla patria del noto conte Dracula (al tempo "Vlad l'impalatore").
In una cittadina nello stato del Maranhao, nel nord est del paese, durante una partita nel locale stadio di calcio, Otavio de Silva arbitro ventenne delle federazione calcistica brasiliana, accoltella a morte Josenir dos Santos Abreu, calciatore trentaduenne, dopo che questi contesta in modo vivace con calci e urla la decisione del giovane arbitro.
Alcuni tifosi presenti nello stadio, molto probabilmente amici del giocatore ferito a morte, invadono il campo e dopo aver inseguito, catturato, legato, picchiato, lapidato ed infine squartato l'arbitro, non soddisfatta la loro sete di sangue decidono di decapitarne il corpo e di impalare la testa portandola in giro per lo stadio come trofeo. Un gesto che forse solo i transilvani del Cinquecento o i romani del tardo impero hanno visto commettere con altrettanta brutalità; insomma una violenza degna di un orda barbarica.
Una vicenda che non può che lasciare allibiti per la bestialità che esprime, due ragazzi sono morti per un motivo futile: una contestazione arbitrale. Purtroppo non è il primo episodio, anche le tifoserie nostrane ci hanno dimostrato come un mix di tensione sociale, assembramento popolare e forte emotività, porti le persone a tirare fuori il loro lato più bestiale, lasciandosi andare a gesti macabri e ad una violenza agghiacciante.
Purtroppo in questi casi è difficile trovare la cause di un simile comportamento perchè bisogna entrare nella psiche collettiva, analizzare a fondo da un punto di vista sociologico la popolazione, scendere insomma ad un livello così interiore e profondo dell'animo umano che risulta difficile fare una sintesi. L'unica possibilità che abbiamo è quella di cercare di disinnescare la bomba sociale prima che esploda, attraverso l'attività di controllo della folla da parte degli stewards, l'educazione civile dei giocatori e di tutto lo staff sportivo (gesti come un "vaffa" sembrano insignificanti ma se moltiplicati e commessi da personaggi popolari per il grande pubblico, portano ad indebolire l'autorità degli arbitri e del personale dirigente e quindi ad innescare la rivolta) e infine attraverso un'educazione civica anche del pubblico che deve capire che allo stadio si va per godersi una giornata di sano sport e non per sfogare la rabbia repressa contro le tifoserie avversarie o, in questo caso, contro un singolo capro espiatorio (anche se in questo caso bestiale tanto quanto i suoi carnefici).

mercoledì 26 giugno 2013

Latte tossico, scandalo COSPALAT

Un altro caso di speculazione sconvolge i mercati nostrani, ma questa volta ci tocca particolarmente da vicino avendo come protagonista un consorzio di allevatori friulani. Sto parlando del caso COSPALAT FVG scoppiato fragorosamente negli ultimi giorni in seguito ad una denuncia da parte di un trasportatore al Nucleo Anti Sofisticazione dei Carabinieri, i quali hanno riscontrato nel latte commercializzato dal consorzio friulano una quantità pericolosa di aflotossine M1 (una tossina considerata nociva perchè capace di alterare la composizione del DNA umano). 
A quanto pare i dirigenti della COSPALAT FVG consci di questa contaminazione, decisero di commercializzare comunque il latte contaminato, alterando le analisi e i referti sulla tossicità del loro prodotto e diluendo il latte nocivo con altro latte non contaminato o con della semplice acqua. Fortunatamente questa "diluizione" diminuisce la quantità di tossine presenti in una singola confezione di prodotto, portandola ad un livello di tossicità più basso, senza però eliminare del tutto i rischi per la salute sopratutto dei soggetti più fragili come i bambini.
Le indagini compiute dai NAS hanno portato alla luce quello che sembra essere un sistema speculativo complesso e organizzato a più livelli con una precisione criminale da parte della direzione di COSPALAT FVG; un sistema che coinvolgeva sia i laboratori addetti all'analisi dei prodotti, che avevano il compito di autorizzare la commercializzazione del latte e degli altri prodotti caseari, sia i trasportatori che diluivano ulteriormente il latte commercializzato, speculando sulla speculazione. Un circolo vizioso che, se confermato in questi termini, non può che lasciare esterrefatti davanti a tanta spregiudicatezza.
La COSPALAT FVG nasce nel 1998 come consorzio di 200 produttori che in quell'anno avevano organizzato importanti proteste contro le "quote latte" imposte dall'Unione Europea (famoso il corteo di 200 trattori a Codroipo). Una ribellione che è costata decine di milioni di euro di multa all'Italia per aver violato le normative europee e non aver imposto ai produttori il rispetto dei limiti stabiliti. Un protesta che fu sostenuta con veemenza dalla Lega Nord e che quindi assunse presto un connotato spiccatamente politico.
Nessun timore comunque per i consumatori italiani perchè fortunatamente COSPALAT FVG vende i suoi prodotti unicamente con il proprio marchio e, almeno in friuli, unicamente nei suoi spacci. Almeno così riferiscono varie indiscrezioni, mentre i maggiori quotidiani ancora tacciono al riguardo, forse per timore di danneggiare i caseifici clienti del consorzio truffaldino. 

giovedì 13 giugno 2013

Democrazie liquide

Incomincio con questo articolo la collaborazione con il blog "Goal Twins", un sito di informazione sportiva che porterebbe a domandarsi che cosa c'entrino i temi di cui tratto nei miei articoli con lo sport. Ebbene io andrei a ricoprire quelle tematiche che non sono direttamente collegate al mondo sportivo, ma lo influenzano comunque indirettamente. Del resto ogni fine settimana ci rendiamo conto di quanta politica si trovi all'interno dei nostri stadi: dalla speculazione edilizia che ha portato alla costruzione della nuova tribuna su un terreno a rischio idrogeologico, al capo ultras che a cavallo della recinzione della curva fa il saluto romano ai suoi "camerati", al premio letterario organizzato dalla società sportiva per promuovere la letteratura locale.
Ma veniamo ora al tema di questo articolo: la democrazia liquida. In questi ultimi mesi in particolare si è discusso molto sull'assetto che le nostre democrazie dovranno assumere per affrontare con successo la giungla digitale della comunicazione globale. Twitter, Facebook e Myspace sono solo tre dei più famosi social network che la rete ci mette a disposizione, dandoci l'opportunità di conoscere in tempo reale i fatti che stanno sconvolgendo una popolazione a migliaia di chilometri di distanza. Ma quale effetto ha sul nostro sistema democratico questa interconnessione digitale?
Innanzitutto rende sempre più difficoltoso per un amministratore compiere delle azioni, spesso illecite, all'ombra dell'elettorato. In secondo luogo crea un filo conduttore diretto tra governante e governati. Infine permette la nascita di formazioni e di movimenti di opinione puramente virtuali (si guardi la formazione del Movimento 5 Stelle ad esempio). Questi aspetti di per se appaiono positivi: rendono trasparente il palazzo del potere, permettono l'attuazione della tanto teorizzata democrazia diretta e sotto certi aspetti può aumentare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. L'altro lato della medaglia sono però le conseguenze che a lungo termine questi portano: la possibilità di controllare costantemente gli eletti porta ad una forte mancanza di fiducia nei confronti dei governanti che quindi tenderanno sempre più frequentemente a rincorrere i sentimenti dell'elettorato nel disperato tentativo di non perdere il sostegno del "popolo". Allo stesso modo il filo diretto che viene a crearsi tra eletti ed elettorato, porta i primi ad appiattirsi sui sentimenti dei secondi (anche su quelli più infantili e beceri), togliendo alla politica quel ruolo di avanguardia dal punto di vista dei valori e dei diritti che ci ha permesso di passare dalla società padronale a quella dei diritti. Infine le nuove formazioni che vengono a formarsi dalla Rete tenderanno a diventare autoreferenziali, perdendo il collegamento con la realtà concreta del mondo e costruendone una puramente artificiale.
Insomma la democrazia per rimanere tale deve necessariamente dotarsi dei mezzi più avanzati che la tecnologia gli mette a disposizione, sfruttandoli come grimaldello per risolvere le inefficiente del sistema (come la mancanza di trasparenza decisionale ad esempio) ma questi non possono e non devo togliere importanza alla militanza "tradizionale", fatta nei circoli e nelle associazioni. Un caratteristica quest'ultima fondamentale per una democrazia perchè permette ai cittadini di toccare con mano la comunità in cui vivono e scoprire passo dopo passo come le decisioni più giuste siano sempre frutto della mediazione e dell'accordo tra tutte le parti sociali.


martedì 14 maggio 2013

Turismo e risorgive

Basta prendere una bicicletta e percorrere via Molini lasciandosi alle spalle il centro abitato di Codroipo, per rendersi conto di quanta ricchezza si celi nascosta tra i campi di granturco e le "foreste" di Pioppi che caratterizzano ormai il panorama della zona delle risorgive codroipesi. In quelli che un tempo erano prati umidi solcati qua e là da centinaia di rigagnoli d'acqua, diverse casate della nobiltà veneziana e austriaca decisero di costruire le loro residenze estive così da poter trascorrere le loro lunghe villeggiature in una delle zone più affascinanti della pianura friulana.
Oggi di quella che un tempo era la zona delle risorgive che si estendeva dal Tagliamento fino a Bertiolo, rimane poco. Le vecchie olle sono state coperte dai contadini per far spazio alle loro culture e negli anni Sessanta ingenti opere di canalizzazione - iniziate già a metà nell'Ottocento - hanno cancellato quel panorama e quella natura meravigliosamente ricca che un tempo caratterizzava le Terre di Mezzo, e che ora si può riassaporare solo in alcuni specifici habitat salvati dalla bonifica - come il Parco delle Risorgive di Codroipo, quello di Rivignano, e i vari biotopi come i Prati Umidi di Flambro.
Non tutto però è stato sacrificato in nome della modernità, quei palazzi e quelle ville erette dalle varie casate nobiliari sono ancora presenti, simbolo perenne di uno sfarzo difficile ritrovabile in altri luoghi del nostro Friuli. E' possibile tracciare un percorso che partendo da quella che fu la reggia dei dogi veneziani a Passariano, giunge a toccare Villa Kecheler a San Martino - eretta dai Manin nel 1600, viene comprata dai Conti Kechler che trasformano una delle barchessa in filanda come ricordano Ippolito Nievo ed Ernest Hemingway - , la Villa dei Colloredo a Muscletto - costruita nel XVII secolo dai Conti di Muscletto che possedevano le fertili terre intorno all'abitato di Romans di Varmo - e Villa Mainardi a Gorizzo di Camino - già fortino costruito dai Conti di Gorizia per presidiare i guadi del  Tagliamento e poi trasformata in villa signorile nel 1648, nel suo ampio ingresso Ippolito Nievo ambientò alcune sue novelle.
Quattro sfarzose magioni, che insieme alle altre villette minori - come Villa Otellio a Sterpo e la Villa Savorgnan ad Ariis - costellano la medesima zona, ovvero quel triangolo di risorgive solcato dai fiumi Varmo e Stella che già nel Medioevo richiamava nobili da tutto il Triveneto e non solo. Un patrimonio paesaggistico che anche se mutilato rimane ancora consistente, e che quindi può e deve essere messo a frutto ridiventando quel polo di attrazione che fu in origine. 
Negli anni sono stati creati diversi percorsi ciclo-pedonali e ippovie di vario genere, che però rimangono deserte perchè costruite senza criterio, senza la possibilità di visitare quei punti di attrazione che queste ville rappresentano. Un progetto ambizioso deve prevede l'acquisto o l'apertura al pubblico di queste residenze oggi private e in stato di semi-abbandono (come appariva la Villa Manin prima che la Regione l'acquistasse negli anni Settanta), in modo che attraverso questi percorsi si possa sfruttare a pieno le potenzialità turistiche di una zona della nostra pianura friulana che la rendono particolarmente speciale e attraente, e che sopratutto in tempi di crisi possono rappresentare un volano per la nostra economia, sia locale che regionale.

mercoledì 8 maggio 2013

Il Lavoro: così prezioso, così fondativo

Il Lavoro per l'individuo non significa solo retribuzione e quindi sostentamento economico, ma anche una forma di realizzazione personale che permette gli di impiegare in modo costruttivo il proprio tempo, dando vita a tutta una serie di realizzazioni attraverso l'utilizzo delle proprie capacità intellettuali e manuali. Una vera e propria creazione di un qualcosa di irripetibile e di personale, che vale anche per gli operai addetti alle catene di montaggio che non potranno mai essere produttivi o innovativi alla stessa maniera dei propri compagni di "linea", tutti si differenzieranno per un qualcosa che è solo loro e che mettono nella creazione che stanno realizzando. 
In questi tempi di profonda crisi, in cui le imprese falliscono e le aziende pubbliche stentano a sopravvivere, il lavoro diventa una condizione privilegiata che porta a tenersela stretta chi ha la fortuna di possederla e a scervellarsi per trovarla chi invece non è altrettanto fortunato. Una situazione che obbliga la classe dirigente a porre rimedio a una simile carenza, individuando le cause che portano l'economia alla stagnazione e a reagire di conseguenza individuando una strategia di rilancio. L'ipotesi più avvalorata è la diminuzione dei costi del lavoro, ovvero di tutte quelle spese che gravano sui bilanci delle aziende per il semplice fatto di dover assumere personale per far funzionare il meccanismo produttivo. Una riduzione che non può essere intesa alla maniera dei neo-liberisti, ovvero attraverso l'abbattimento dei salari e degli ammortizzatori sociali, o peggio ancora attraverso la riduzione dei sistemi di sicurezza personali nei posti di lavoro. Una visione che ci riporterebbe indietro di anni, a ricreare delle "fabbriche dei veleni" come la tristemente famosa Sloi di Trento o la Icmesa di Seveso o la Eternit di Casale Monferrato. 
Una riduzione dei costi del lavoro che deve dunque passare per altre vie, come:
- la riduzione della tassazione da reddito di impresa attraverso la riduzione dell'IRPEF;
- il miglioramento dei sistemi di comunicazione, sia viari che informatici, attraverso la realizzazione di poli produttivi concentrati, la posa di cavi in fibra ottica per la copertura della banda larga, e la riduzione della congestione stradale attraverso incentivi all'utilizzo di mezzi pubblici e ferroviari;
- la cooperazione tra piccole-medie imprese attraverso la creazioni di reti di impresa, che coordinino la produzione di determinati prodotti tra diverse imprese in modo da rendere competitive sul mercato internazionale anche le aziende di dimensioni ridotte. 
Tre punti a mio pare semplici e fondamentali, che insieme possono fungere da volano immediato per l'economia senza rinunciare a tutte quelle vittorie ottenute nel corso degli anni da sindacalisti coraggiosi e da singoli operai che hanno sacrificato la propria vita - come quel Mario Pavesi ucciso dalle polveri della sua Eternit - per vedere migliorate le condizioni di lavoro non solo personale, ma di tutte le categorie e le generazioni di lavoratori.

martedì 30 aprile 2013

Qui si muore democristiani

I fatti di questi giorni, l'emotività, la rabbia e la confusione che sono scaturiti dall'elezione del governo PD-PDL a guida Letta, mi portano a domandarmi su cosa sia la tanto sbandierata Sinistra; sul perchè l'espressione finale di questa Sinistra sia un governo che sa molto di quel CAF tanto disprezzato nei primi anni Ottanta (l'alleanza Craxi-Andreotti-Forlani); ma soprattutto perchè questa Sinistra non riesce mai concretamente a diventare forza di governo.
"Si muore democristiani" è la frase che meglio riassume il nostro Paese, un'Italia che è vittima di quella mentalità cattolico-assistenzialista che vede lo Stato come un mero distributore di servizi e non come l'espressione di una comune organizzazione civile e democratica. Una mentalità cattolica che permea anche quella mistica Sinistra di cui tanto si parla oggi: una visione del mondo pietistica, che vede nel derelitto una povera vittima del mondo consumista e non si domanda il motivo che ha spinto quella persona a vivere all'ombra di un cavalcavia, non analizza quelle cause che magari potrebbero essere imputabili alla vittima stessa che diventa così carnefice di se stessa.
Una Sinistra macchiata dalle logiche e dalla mentalità cattolica, che ha quindi perso la sua identità nel disperato tentativo di equiparare tutte le persone indiscriminatamente, senza sviluppare l'individuo, senza accrescerlo come in qualsiasi processo evolutivo, ma mettendolo drasticamente sullo stesso piano anche di coloro che hanno invece dovuto combattere con le unghie e con i denti per raggiungere quella posizione.
Una parola - Sinistra - di cui si sono riempiti la bocca personaggi che si sono reputati i portatori della "vera Sinistra". Esemplificativo è il caso di una neo eletta che al mio rifiuto di assisterla nella campagna elettorale - per ragioni non politiche ma personali - mi rispose dicendo: "allora puoi star sicuro che non ti sceglierò come portaborse". Una frase agghiacciante, che mi ha freddato all'istante perchè mai mi sarei aspettato sarebbe uscita dalle sue labbra. Una frase che ho sentito espressa anche da personaggi locali molto vicini al pensiero cattolico, ma che invece non ha avuto lo stesso effetto su di me proprio perchè da loro me lo sarei aspettato.
Una Sinistra che pretende di essere ricostruita ancora, ancora e ancora, come una eterna città in rovina ormai disabitata e saccheggiata dagli sciacalli, alla continua ricerca di quei pochi preziosi rimasti sotto alle macerie dei fasti passati.

domenica 21 aprile 2013

LA FINE

L'elezione del presidente della Repubblica rappresenta certamente la pietra tombale per un Partito Democratico e per un Centro-Sinistra per come li abbiamo intesi fino ad oggi. Nel giro di neanche 24 ore, la situazione si è evoluta con una rapidità tale da devastare le dirigenze dell'ultimo partito non personalistico rimasto e da scatenare un rifiuto nel suo elettorato così profondo che sarà difficilmente colmabile nel giro di breve tempo.
Un serie di errori fatali che sono ricaduti completamente sulle spalle di un Centro-Sinistra ormai devastato, diviso e frammentato come il suo maggiore partito. Già da quella prima candidatura di Franco Marini, il PD ha dimostrato tutte le sue divisioni interne, mostrandole all'opinione pubblica nel modo peggiore, attraverso incoerenze tra le decisioni assembleari e l'effettivo voto in aula. La situazione poi è precipitata proprio con la candidatura di quel padre storico del Partito Democratico, quel Romano Prodi che non poteva perde il sostegno di quasi il 20% dei suoi rappresentanti parlamentari: 104 "franchi tiratori" come li chiamano i telegiornali, che hanno mostrato una metodologia tipicamente democristiana, un'incoerenza tra le intenzioni dichiarate e l'effettivo voto per ragioni che possiamo solo immaginare, come ad esempio il risentimento verso la sconfitta della candidatura del capocorrente, o l'inesperienza vista la giovanissima età, o peggio ancora una precisa operazione di demolizione della leadership partitica con lo scopo di sostituirla con la propria, anche a costo di demolire pezzo dopo pezzo quello stesso partito che così avidamente si punta a governare.
Una serie di fatali errori, che sono stati amplificati dalla mancata discussione dell'ambigua candidatura di Stefano Rodotà. Uso questo particolare termine perchè il dubbio era se la sua candidatura, portata avanti dal Movimento 5 Stelle, fosse effettivamente fine a stessa o se invece nascondeva una possibile trappola che spingesse il PD nella braccia dei guru della Rete, in modo tale da diventare quest'ultimi gli effettivi detentori del potere anche se usciti sconfitti dalle elezioni. Un'incertezza fatale, che complice la forza mediatica ed emotiva di Beppe Grillo, ha portato la dirigenza del PD ad escluderla aprioristicamente, quando invece sarebbe bastato rischiare la frattura interna (che si è presentata comunque attraverso un'altro candidato) sostenendolo in una sola votazione, in modo che una volta uscito sconfitto si fosse potuto giustificare la ricercata di un'altro possibile candidato (magari più esperto e condivisibile dalle diverse parti). Una sottovalutazione fatale dell'effetto che certe decisioni avrebbero avuto sull'opinione pubblica e sugli stessi compagni di partito, che nasce da una carenza di comunicazione e di cura dell'immagine che da troppo tempo caratterizza questo Centro-Sinistra (vedi foto sopra).
Un fallimento che fa crollare la fiducia nel Centro-Sinistra e spalanca le porte al successo di quel Movimento tanto discriminato. Una serie di errori fatali che non possono che ricadere sulle spalle di quella dirigenza del Partito Democratico che non può nascondersi dietro alla particolare difficoltà della situazione politica. Un crollo che ora apre inevitabilmente una nuova stagione per la Sinistra che dovrà innanzitutto scovare ed eliminare i "tiratori" (che attraverso un semplice gioco di parole diventa facilmente "traditori"), ricreare un alveo di rappresentanza omogeneo e uniforme nelle progettualità e nella disciplina di partito, e ricominciare a lavorare fin da domani per ritrovare la fiducia del suo stesso elettorato.

giovedì 18 aprile 2013

A furor di popolo

Nel post scritto in precedenza, ho cercato di analizzare i due candidati alla presidenza della Repubblica, Marini e Rodotà, basandomi unicamente sui loro curriculum, tralasciando tutti quegli aspetti e metodologie che nascondono l'elezione di uno o dell'altro candidato.
Da un lato la candidatura di Marini è scaturita da un dibattito, per quanto breve possa essere stato, tra le diverse componenti interne al Partito Democratico, a cui è seguito un dialogo con il Popolo delle Libertà e con le forze centriste per valutare se la sua figura possa trovare il consenso e la rappresentanza anche delle altre forze che vanno a comporre l'emiciclo parlamentare. Una selezione dunque che appare puramente collegiale, che non crea fazionismi ma che cerca invece di trovare il maggior consenso possibile, con l'unico scopo di rappresentare una porzione politica (e quindi societaria) più ampia possibile.
Dall'altro la candidatura di Rodotà è scaturita da un'elezione telematica tenutasi tra determinati iscritti al Movimento 5 Stelle (solo quelli iscritti al blog del leader Beppe Grillo). Eliminata l'ipotesi Gabbanelli, Rodotà è stato presentato come candidato del Movimento e come rappresentante di una ipotetica cospicua porzione di società che desidera segnare un ampio distacco dal recente passato politico. Una selezione che appare quindi ambigua, perchè presentata come un'espressione popolare quando trattasi invece di una scelta partigiana, effettuata da una componente più che minoritaria dell'elettorato, e che è stata rinforzata grazie ad una possibile ipotesi di alleanza governativa con quel Movimento che fino a pochi giorni fa aveva chiuso qualsiasi ipotesi di governo con i cosiddetti "partiti tradizionali" (di fatto il Partito Democratico e i suoi alleati).
La figura di Stefano Rodotà viene così presentata con una metodologia che non posso che rifiutare, un sistema populistico che cerca continuamente di bypassare i riferimenti democratici come i partiti e le istituzioni, riconducendo continuamente alla folla la decisione ultimativa. Un metodo che erroneamente è stato definito come puramente democratico, perchè in realtà quella folla non rappresenta la totalità degli individui che compongono la società, ma solo una parte di essi. Un metodo che a lungo termine conduce all'indebolimento dei meccanismi democratici e quindi al collasso del sistema esattamente come accaduto negli anni Settanta in quell'America Latina che nel giro di pochi anni ha visto cadere tutte le sue democrazie instabili, sostituite con dei governi militari dispotici e fascisti.
Viceversa la scelta di Marini viene interpretata come la decisione di una fantomatica burocrazia politica che si rifiuta di ascoltare le opinioni di quella folla che ha ridotto la partecipazione partitica ai minimi storici. Una decisione che pare non essere interpretata come il frutto di un dibattito e di una mediazione, ma come una sorta di "inciucio" frutto dell'indifferenza dei politici nei confronti dei sentimenti dell'elettorato. Un'accordo quello tra Centro-Sinistra e Centro-Destra che viene rifiutato per via della figura che rappresenta una delle due controparti: un Silvio Berlusconi che non viene considerato un interlocutore legittimo per via di quei suoi comportamenti che hanno umiliato le istituzioni e il Paese agli occhi della comunità internazionale.
In ultima analisi, le proteste e il malumore che sta caratterizzando la società italiana negli ultimi mesi deve essere canalizzato dal sistema prima che diventi distruttivo per la democrazia, una tensione tangibile che rischia di diventare violenza politica come nella vicina Grecia. Certamente l'elezione di Marini porterà alla lacerazione del Partito Democratico, mentre la scelta di Rodotà ci permetterà di preservare quell'ultimo argine che ci protegge dalla deriva populistica. In un periodo difficile come quello che stiamo vivendo, i politici devono compiere scelte coraggiose ma devono essere capaci di saggiare le opinioni di quella folla che sceglie sempre Barabba. Se anche solo l'ipotesi Marini scatena questa violenza mediatica e questo malcontento che appare diffuso nella società, Rodotà potrebbe mantenere un certo livello di quiete che permetterebbe alle poche forze strutturate rimaste di compattarsi e consolidare tutto il sistema. In questo caso il rischio sarebbe quello di tradire il proprio meccanismo, quel sistema democratico interno che ha espresso Marini, una incongruenza che a lungo termine potrebbe però essere metabolizzata grazie a una rinnovata iniezione di fiducia nelle strutture della democrazia.

Due anime

Che la democrazia italiana si ormai a un passo dalla sua dissoluzione ormai è una questione appurata. Il clima di forte ostilità che si è venuto a creare in seguito alle candidature per la presidenza della Repubblica, dimostrano ancora una volta le difficoltà che il Partito Democratico, l'ultima forza partito rimasta unita ed operativa (seppur con tutti i suoi limiti), deve affrontare nel disperato tentativo di trovare una qualche forma di stabilità politica.
Attaccato sia esternamente, da Grillo e Berlusconi, che internamente, da Renzi e i "franchi tiratori" (paragone improprio ma simbolico dei personalismi che ormai divorano il dibattito politico nostrano), l'ultimo partito democratico e non personalistico rimasto Italia, deve accollarsi il peso di esprimere una candidatura per il Quirinale che sia al tempo stesso condivisibile dalle altre forze politiche e rappresentativa del Paese (inteso nel suo senso più ampio e non nel differente umore quotidiano che travaglia il popolo sovrano).
Partendo da questo presupposto viene quindi da chiedersi se i due candidati più forti, Franco Marini e Stefano Rodotà, rispondano a queste due necessità. Il primo viene dal mondo sindacale d'un tempo, da quella CISL di Pastori, Storti e Carniti che era effettivamente un'organizzazione volta alla protezione del mondo operaio e non autoreferenziale come quella odierna. Il secondo è un giurista, ha partecipato alla scrittura della Carta dei Diritti Fondamentali Europea ed è stato garante della Privacy per circa otto anni.
Due curriculum più che rispettabili che quindi li qualificano come possibili candidati al colle più alto di Roma (altrettanto non si poteva dire di una certa Milena Gabbanelli, che per quanto possa essere considerata un'ottima giornalista d'inchiesta, non possiede quelle qualifiche necessarie per rappresentare uno Stato complicato come il nostro), ma che non risolve il rebus su chi dei due sia il più appropriato in una fase difficile come questa. Mentre Marini può rappresentare tutte gli schieramenti e quindi unire le diverse componenti del Parlamento, Rodotà può esprimere al meglio quel desiderio di cambiamento che a gran voce viene espresso dagli italiani.  
E' proprio in quest'ultima constatazione che scatta il cortocircuito che ci ha portato a questa impasse: da un lato il desiderio di rinnovare drasticamente la politica e dall'altro la considerevole forza che quel Silvio Berlusconi, l'emblema dello status quo, possiede ancora grazie al sostegno popolare. Due anime che rendono la società schizofrenica e portano a considerare qualsiasi forma di mediazione come una sorta di "inciucio". 
Sinceramente non saprei verso quale dei due candidati sbilanciarmi, certamente mi ritrovo idealmente più vicino a Rodotà, ma la forza che ha Marini di rappresentare unitariamente le diverse fazioni politiche (e quindi le diverse componenti dell'elettorato) non può essere lasciata in secondo piano. Idealità o razionalità, un dilemma a cui non so darmi una risposta.

(continua nel prossimo post)

martedì 16 aprile 2013

25 Aprile a Udine

Riporto di seguito la fotocopia della lettera che il sindaco Furio Honsell ha inviato a tutti gli iscritti dell'ANPI Udine come invito di partecipazione alle cerimonie che si terranno nella città Medaglia d'Oro della Resistenza in occasione della giornata della Liberazione dal nazi-fascismo.
Non mi soffermo sulle parole particolarmente toccanti che non possono che rendermi orgoglioso di essere parte di questa grande organizzazione democratica, ma riporto a modo esemplificativo il nome del comitato, presieduto da Furio Honsell, che ha composto l'invito:

COMITATO PER LA DIFESA DELL'ORDINE DEMOCRATICO 
E DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE

                                                          (per lo zoom, clicca sull'immagine)       

sabato 6 aprile 2013

Il mulino e il parco

Camminando per via Molini è possibile osservare un nuovo curioso progetto prender forma proprio dietro al decadente mulino di Bosa: la realizzazione di una nuova pista ciclabile di accesso al Parco delle Risorgive. Con la delibera numero 136 del 18 Giugno 2012, la giunta comunale ha approvato la costruzione di questo nuovo accesso al biotopo delle risorgive di Codroipo, esattamente di fronte al ponte pedonale sul Corno che collega via Mulini al Belvedere. Con la stessa delibera, il comune approva inoltre il rifacimento della copertura (del tetto, per dirlo in parole semplici) del vicino mulino di Bosa. 
Insomma una novità che non tarderanno a notare gli assidui frequentatori del parco nostrano. La realizzazione della nuova pista ciclabile, con annesso ponte sulla roggia S. Odorico, creerà un nuovo ingresso al parco all'altezza del secondo prato - per intenderci quello con il grosso albero al centro che funge da curva per la strada. Le ragioni che spingono alla creazione di questo secondo ingresso non sono chiare, probabilmente sono dovute al desiderio di aumentare l'affluenza dei visitatori, creando un ingresso più comodo e vicino per coloro che provengono dalla zona del Belvedere (per accedervi, costoro sono ora costretti ad andare fino al campo sportivo, ma immagino che per chi desidera farsi una camminata nel Parco delle Risorgive non sia affatto un disagio allungare di un paio di minuti la propria camminata).
Un'altra ipotesi, e a mio parere la più plausibile, è collegata alla seconda decisione approvata dalla delibera: la riparazione del tetto del mulino di Bosa. Da tempo si parlava nei palazzi del comune, già da prima dell'insediamento della giunta Marchetti, di riqualificare il mulino trasformandolo in una sorta di struttura turistico-naturalistica dove realizzare delle mostre statische sulla flora e la fauna locale, e delle attrazioni per le scolaresce col fine di avvicinare i bambini alla natura.
Insomma un progetto che non può che trovare pareri favorevoli se realizzato con queste finalità, l'unica incognita rimane il finanziamento, che in tempo di vacche magre si sà stenta ad arrivare. Per il momento i lavori della pista ciclabile sono stati avviati, speriamo che per la riqualificazione del mulino di Bosa non dovremmo aspettare troppi anni.

martedì 2 aprile 2013

Vincitori e vinti

In seguito alla chiusura drastica e finale compiuta dal Movimento 5 Stelle su possibili collaborazioni governative con altre forze politiche, lo scenario politico italiano rimane incerto, vedendo il prolungamento di quella crisi dello Stato che mette a rischio, ora più che mai, la stabilità del sistema democratico italiano. Non è mia intenzione soffermarmi su una possibile soluzione a questo stallo alla messicana (per citare i film western), di questo se ne stà già occupando il presidente Napolitano che certamente ha più esperienza e capacità di analisi rispetto al sottoscritto. Mi preme invece analizzare le conseguenze della proposta avanzata da Beppe Grillo e che nel mio chiaccherar quotidiano ho scoperto essere condivisa da un discreto numero di miei concittadini: un governo a guida 5 Stelle.
Innazitutto voglio chiarire il fatto che ritengo questa proposta una mera azione politica, priva di fondamento e di applicabilità, scaturita da un clima di vittoria mutilata per il Centro-Sinistra che porta quindi il maggior "movimento" italiano ad alzare le proprie richieste, facendo leva su un sentimento diffuso tra gli elettori che li vede come veri vincitori della tornata elettorale. Una vittoria come detto "mutilata" per il Centro-Sinistra che ottiene la maggioranza con un misero 29%, contro quel 25% ottunuto dal M5S al suo primo appuntamento elettorale. Un'opinione personale più che prettamente realistica pare quindi essere alla base di questa logica. Nonostante il risultato rappresenti un fallimento per la leadership politica del PD e dei suoi alleati, il Centro-Sinistra ha ottenuto la maggioranza dei voti e questo gli dà il diritto di essere la forza che dovrà comporre il nuovo governo. 
Il compito delle elezioni è quello di stabilire dei vincitori  e dei vinti. I primi hanno il diritto e il dovere, in seguito alla vittoria conseguita, di formare un governo, mentre i vinti hanno il compito di andare a comporre le fila dell'opposizione a tale governo (od eventuale a parteciparvi in certe misure e in certi limiti decisi dai vincitori). Nel caso in cui tale non governo non sia guidato dalla forza uscita vincitrice, si creerebbe una storpiatura nel sistema elettorale che non sarebbe quindi più in grado di decretare chi abbia la prerogativa nella formazione del governo e chi no. Questo provocherebbe un precedente che destablizzerebbe sensibilmente il sistema democratico, privandolo del suo strumento principale per la legittimazione delle istituzioni e del governo. Un sistema elettorale che non stabilisce vincitori e vinti è un sistema che è per sua natura instabile, perchè le istituzioni sono messe continuamente in discussione grazie ad una sorta di by pass che, attraverso la mobilitazione popolare, mina alla base la legittimità del governo e quindi vanifica il significato delle votazioni elettorali.
Nel concludere, la pericolostà di una logica di questo tipo - del consegnare l'incarico governativo nelle mani di una forza uscita sconfitta dalle elezioni, ma ritenuta vincitrice nell'opinione generale dell'elettorato - nasconde i germogli della destabilizzazione del sistema democratico. Un pericolo mortale per la nostra fragile democrazia, che può ritrovare stabilità solo con un riforma del sistema elettorale (eliminando il micidiale semi-maggioritario "Porcellum") e attraverso un'accresciuta visione critica e civica dei suoi cittadini, la vera forza stabilizzatrice in tutti i sistemi democratici.