martedì 27 agosto 2013

Un museo della Resistenza Friulana

Il sottoportico con le porte delle celle di detenzione
Ci sono storie facili da dimenticare perché scomode o tragiche per i ricordi che fanno riaffiorare anche solo risentendo i nomi dei protagonisti. Quando però una storia diventa così violenta da lasciare un solco indelebile nella memoria di un collettività e di un territorio, allora non esiste volontà o dolore capace di rimuoverla del tutto. E’ questo il caso della Caserma Piave di Palmanova.
Se mai vi capiterà di camminare per le geometriche strade della “città stellata”, gioiello dell’architettura bellica veneziana, scoprirete che gli abitanti più anziani di Palmanova mostrano ancora un certo timore non appena sentono il nome del fiume reso famoso dalla Grande Guerra. Nelle loro menti è ancora lucido il ricordo di quelle urla strazianti che provenivano dalle celle di tortura della Caserma del Capitano delle S.S. Pakibus. Flagellazioni, torture, impiccagioni, se le mura della Caserma Piave potessero parlare racconterebbero delle storie così terribili da far rivoltare lo stomaco a noi giovani che la guerra siamo abituati a vederla romanzata al cinema.
Molte di quelle storie tragiche sono ancora leggibili sulle mura delle celle della Caserma, attraverso le scritte che i giovanissimi detenuti (l’età media del combattente partigiano era di 22 anni) hanno lasciato come monito per coloro che li avrebbero seguiti in quel girone infernale. La più terribile di queste era la cosiddetta “cella paradiso”, così rinominata perché una volta entrati si era sicuri di non uscirci più vivi.
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, la Coop Consumatori e il comune di Palmanova, hanno deciso di allestire proprio in questo luogo il Museo Regionale della Resistenza perché dimostri una volta per tutte quanto sia falso quel motto che dice che il Fascismo è il cugino buono del Nazismo. Anche se il comandante Pakibus era agli ordini diretti del Terzo Reich, i suoi aguzzini come i repubblichini della “banda Ruggero” o il milite Piccini, erano italiani ufficialmente inquadrati nella polizia territoriale della Repubblica di Salò, ma in realtà desiderosi solo di sfogare la propria violenza contro quei partigiani che consideravano traditori dell’Italia Fascista.
Un museo che prendendo spunto dal Museo della Resistenza di Torino, cercherà di trasmettere ai visitatori e alle scolaresche le storie, le sofferenze e i valori che hanno animato le migliaia di friulani che hanno combattuto per la liberazione dal nazi-fascismo, e che permetterà di capire quanti sacrifici sia costata la nostra democrazia  e perciò quanto importante sia conservarla e proteggerla dalle derive autoritariste e populistiche che, soprattutto in periodi di crisi economica come questi, cercano di delegittimarla, seguendo quello stesso schema che negli anni Venti i fascisti usarono contro la fragile democrazia dell'Italia Liberale.

lunedì 19 agosto 2013

La protesta al CIE di Gradisca

Copia dell'articolo di Giulia Travain, pubblicato su www.progre.eu


I reclusi in rivolta sul tetto del CIE. Foto di Giulia Travain
Ieri a Gradisca d’Isonzo (Gorizia) si è tenuta una manifestazione per chiedere la chiusura immediata del CIE, considerato – per le condizioni in cui versano gli immigrati lì trattenuti – il peggiore d’Italia.
Nel CIE di Gradisca non esistono spazi comuni, né una mensa: nelle stesse stanze in cui si dorme, si consumano i pasti e passano le ore i ragazzi rinchiusi. Ai trattenuti, qui tutti uomini, non è permesso fare una partita di calcetto, e nemmeno è concesso avere fogli di carta per scrivere una lettera. Sono sorvegliati 24 ore su 24 da polizia ed esercito. Spesso – denunciano gli organizzatori della manifestazione – vengono anche somministrati psicofarmaci.
La protesta di ieri, promossa dai Centri sociali Nord Est e altri collettivi autonomi, ha visto anche la partecipazione di esponenti di SEL, Rifondazione Comunista e M5S, nonché di diversi assessori regionali e comunali del Friuli.
Nei giorni scorsi, peraltro, erano già intervenute la parlamentare di SEL, Serena Pellegrino che, in seguito alla visita del centro, ha chiesto un immediato incontro con il prefetto per «garantire i principi umanitari e la tutela dei diritti civili in questo luogo di disperazione. Diritti che riguardano tutti: detenuti e forze dell’ordine»; e la presidentessa della Regione, Debora Serracchiani, la quale ha dichiarato essere necessaria la chiusura immediata dei centri e l’auspicio che il governo si occupi quanto prima della questione.
Tra altoparlanti, striscioni e testimonianze, i trattenuti hanno preso parte alla manifestazione dal tetto interno della struttura al grido «noi non siamo criminali, vogliamo la libertà e grazie a tutti voi per essere qui», lamentando, tra l’altro, il fatto che gli fosse precluso avere notizie del ragazzo scivolato dal tetto qualche giorno fa in un tentativo di fuga: «non sappiamo nemmeno se sia vivo o morto, non ci dicono niente!».
Anche a chi ha provato a visitarlo all’ospedale, secondo quanto dichiarato da una tra gli organizzatori, non è stata fornita alcuna informazione sulle sue condizioni di salute.
La situazione del centro per ora resta invariata. In mancanza di un’azione di governo e del Ministero degli Interni, le possibilità di azione sui centri da parte dei governi territoriali resta limitata, ma se non altro l’agitazione di questi giorni ha portato maggiore consapevolezza alle istituzioni regionali, che ora possono provare a operare congiuntamente a quelle di altre regioni perché, a livello nazionale, si muova qualcosa.
La legge Bossi-Fini va ripensata, la sua inefficienza è stata ormai più volte dichiarata dalle organizzazioni, enti e operatori che lavorano in questo campo.Tuttavia, pare che la riforma della legge sull’immigrazione non sia una delle priorità dell’attuale governo.
La situazione dei CIE non può però essere ricondotta nell’alveo della stessa riforma, e rimandata a data da destinarsi: prima che un problema politico, i CIE pongono un problema di violazione dei diritti della persona. L’Italia, che aderisce alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e alla Carta dei diritti dell’Unione Europea, non può più permettersi di portare avanti politiche di questo tipo incuranti del rispetto della libertà personale e dei diritti umani.
La politica migratoria è una cosa, l’umanità è un’altra e costituisce un limite per la prima. E qui, è di umanità che si tratta.

mercoledì 14 agosto 2013

L'ùali di Diu

Foto di Davide Bevilacqua
Ieri sera ho avuto il piacere di assistere ad uno spettacolo teatrale all'agriturismo Ai Colonos di Villacaccia di Lestizza, una realtà ormai famosa in tutto il Friuli per la sua produzione culturale di alta qualità. Dopo quasi tredici l'opera del famoso drammaturgo Miklos Hubay, torna in scena tradotta in friulano per il pubblico del friul di miec.
"L'ùali di Diu" narra la vicenda di una donna violentata e condannata a morte con la sola accusa di appartenere ad una minoranza linguistica. Il terribile destino che l'aspetta segna la fine della lingua e della cultura del suo popolo, estinto per sua stessa mano a causa della pavideria dei cosiddetti "rinnegati", uomini appartenenti anch'essi a quella minoranza ma che si sono arresi all'omologazione per avere salva la vita. Neanche l'ultimo disperato tentativo di un giovane seminarista, affascinato dalla lingua di questo popolo che ha scoperto grazie ad una Bibbia tradotta, basterà a salvare la vita alla giovane prigioniera. 
La vicenda si svolge all'interno del carcere in cui la prigioniera attende il compiersi del suo destino, a farle compagnia ci sono solo il rumore passi e delle canzonette degli ufficiali che provengono dai piani superiori, e uno di quei "rinnegati" che ha l'ordine di sorvegliarla ma che ben presto sarà travolto dai rimorsi per essere diventato carnefice del suo stesso popolo.
Il testo dell'opera trasmette una profondità che solo il teatro d'autore può ancora comunicare. Nelle vicende della giovane prigioniera, Hubay vuole rappresentare la nostra società, travolta dal consumismo e da una globalizzazione selvaggia che attraverso le televisioni e la moda spazza via le culture ancestrali che hanno permesso l'evoluzione dell'umanità fino ai giorni nostri. Una globalizzazione che con la pretesa di rendere tutti gli uomini uguali, dichiarandosi quindi puramente democratica, in realtà distrugge la libertà imponendo uno schema omologante al quale non ci si può sottrarre se non a carissimo prezzo. 
Un dramma sociale che ci permette di comprendere quanto la cultura sia fondamentale per l'essere umano, quanto i valori e i principi siano il fondamento del vivere collettivo, e quando questi vengono meno, quando tutto si riduce ad una serie di credenze preconfezionate, anche l'uomo diventa macchina. 
Hubay ci fà capire il pericolo intrinseco della monocultura, una forza omologatrice che spazzando via le differenze arresta l'evoluzione del pensiero umano. Attenzione però, in virtù di queste necessarie e fondamentali differenze non si possono giustificare l'oppressione e la segregazione, perchè una società che decide di chiudersi al mondo diventa omologante al suo interno e quindi da vittima diventa anch'essa carnefice.