martedì 12 novembre 2013

Robert Capa e la Guerra Civil

Dal 10 ottobre al 19 gennaio è allestita presso la Villa Manin di Passariano di Codroipo (UD) una mostra sugli scatti del padre dei fotoreporter di guerra, Robert Capa. La mostra raccoglie centinaia di scatti del fotografo ungherese oltre ad alcuni spezzoni di video sempre da lui realizzati, soprattutto durante il secondo conflitto mondiale.
Capa, al tempo John Steinbeck, nasce nel 1915 a Budapest da una famiglia ebraica. Giovanissimo si iscrive al partito comunista, ma è costretto presto ad emigrare a causa del crescente potere che il partito nazionalista e antisemita delle Croci Frecciate, guidate del futuro dittatore Ferenc Szálasi, sta lentamente acquisendo. Si trasferisce quindi in Germania alla ricerca di uno sbocco lavorativo come fotografo, cambia anche il suo nome da John Steinbeck a Robert Capa, perchè in una europa fortemente antisemita un nome tipicamente ebraico non può che essere una zavorra per la sua carriera. 
Fin da subito quindi Capa cerca di combattere i vari fascismi che si stanno affermando in tutta europa, utilizzando come arma l'obiettivo della sua macchina fotografica. Nel 1935 allo scoppio della Guerra Civil in Spagna, tra le forze repubblicane e i ribelli nazionalisti di Francisco Franco, Capa decide di unirsi ai combattenti repubblicani per documentare quello che a tutti gli effetti si caratterizza come un crimine contro la democrazia. La Repubblica Spagnola nasce nel 1931 dopo la fuga del re Alfonso XII, le crisi politiche che sconvolgono la fragilissima democrazia portano alle elezioni del 1936 alla vittoria del Frente Popolar, una coalizione di partiti marxisti, e quindi alla reazione della Falange Espanola, i nazionalisti guidati da Franco, che organizzano un colpo di Stato per deporre il governo democraticamente eletto.
Ed è proprio in Spagna che Capa esprime tutte le sue doti, segue per due anni tutti i combattimenti tra le forze lealiste repubblicane e i ribelli nazionalisti e scatta migliaia di foto. Proprio uno di questi scatti mi ha particolarmente colpito, siamo nel 1938, la guerra ormai è perduta per i repubblicani e Capa decide di partecipare alla cerimonia di scioglimento delle Brigate Internazionali (quelle formazioni composte da antifascisti provenienti da tutta europa per difendere la democrazia, tra cui anche i codroipesi Giuseppe Marchetti, Cao Vittorio e Grosso Giuseppe). Proprio qui Capa fotografa un'uomo sui trent'anni, che insieme ai suoi compagni di brigata sta partecipando alla cerimonia.
Questo giovane uomo è in piedi, con lo sguardo fiero a mento alto che guarda probabilmente una bandiera o l'uomo che dal palco sta tenendo un discorso, non ci è dato saperlo, e con la mano destra a pugno chiuso sta facendo un saluto che è una via di mezzo tra quello militare e il vigoroso saluto comunista a pugno teso. I suoi occhi sono dritti, i muscoli della faccia tesi come ad esprimere la fierezza di un uomo che ha percorso migliaia di chilometri, che ha sacrificato molto pur di essere lì, insieme ai suoi compagni a lottare per quello in cui crede: la democrazia e la libertà dei popoli. Però i suoi occhi trasmettono anche qualcos'altro, una misto di rabbia e sofferenza per non essere riuscito a vincere la sua lotta, un'amara delusione che però non lo demoralizza, ma anzi lo sprona a lottare ancora un domani, finchè le forze glielo permetteranno.
Ecco la fotografia di questo giovane uomo mi ha profondamente colpito, raccoglie in se tutta l'umanità di una persona che è disposta a sacrificare tutto per gli altri, per combattere in quello in cui crede, e solo la maestrina di Capa poteva raccogliere questo istante. 
Non ho messo questa fotografia come immagine per questo articolo perchè vi invito ad andare alla mostra a vederla con i vostri occhi. Vi invito a fissare intensamente il suo sguardo per cogliere l'umanità che si nasconde dietro di esso. Osservatelo intensamente e vedrete l'incarnazione di un ideale.

lunedì 4 novembre 2013

Politica e religione, un legame diabolico

Domenica 3 Novembre all'auditorium comunale di Rivignano si è tenuta un'importante conferenza sul significato che la Bibbia ha per le tre principali confessioni religiose monoteiste: l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo. Ospiti dell'evento, organizzato dall'amministrazione comunale in occasione dei festeggiamenti per il cinquecentenario dell'istituzione del ghetto di Rivignano, erano i rabbini Luzzato e Locci, il monsignor Genero e l'imam Aziz. 
Obiettivo della conferenza era l'analisi da tre diversi punti di vista del libro sacro comune a tutte e tre le confessioni (anche se chiamato con nomi diversi: Torah, Bibbia e Coran). L'importanza simbolica di questo incontro risiede nel dialogo che con il Concilio Vaticano II si è ufficialmente aperto tra le tre confessioni, nel tentativo di "convivere pacificamente" piuttosto che di riunire i tre diversi credo, accomunati oltre che dalla Bibbia, anche da una comune visione dell'aldilà e soprattutto da quell'unico dio che proprio come la Bibbia si differenzia unicamente nel nome con cui viene chiamato: Yahwe, Dio, Allah.
Non intendo soffermarmi troppo sulle argomentazioni presentate dai vari relatori sulle diverse interpretazioni che le varie confessioni danno del libro sacro, anche se sono molto interessanti per comprendere le forti comunanze e le altrettanto profonde differenze che hanno portato alla formazione di tre diverse confessioni da una comune matrice religiosa, per concentrarmi invece sul punto che ritengo interessante sviluppatosi nella fase del dibattito: se tutte le fedi professano l'amore e la fratellanza come valori universale, anche tra popoli diversi, perchè scoppiamo conflitti religiosi?
Principalmente è dovuto alla politicizzazione del pensiero religioso. Questo fatto non è logicamente necessario, essere fedeli non significa doversi necessariamente armare degli strumenti politici al fine di applicare la propria visione della vita a tutta la popolazione. In quasi tutti i conflitti, la religione è stata usata come giustificazione della violenza e della ferocia tra i gli avversari. E' altresì facile indurre timori e paure nella popolazione annebbiando la realtà, individuando una sorgente unica di tutti i mali su cui concentrare la rabbia e la ferocia degli oppressi, distogliendola dalla reale sorgente della disuguaglianza e quindi mantenendo un forte controllo sulle masse.
La soluzione a questa politicizzazione risiede, secondo i teologi ebraici, nella Bibbia stessa quando questa dice che esistono degli specifici doveri sociali rivolti a tre specifiche categorie:
- All'orfano, colui che non ha genitori e quindi ha nessuna forma di sostegno;
- Alla vedova, colei che non avendo il marito ha perso il sostegno (essendo il marito un valido sostituto dei genitori);
-Allo straniero, colui che non ha niente e nessuno, ne sostegno ne senso di appartenenza perchè non possiede una terra.
Ed è proprio quest'ultimo valore (ci tengo ancora a sottolineare "sociale" e non "religioso") il più disatteso.
A questo punto il dibattitoevolve, toccando un altro tema fondativo per il nostro vivere in società, perché da questa constatazione si deduce quanto la società moderna non si basi su principi e valori che provengono dalla Bibbia, bensì da altre fonti che i teologici trovano in quella che chiamano la "visione rettangolare", ovvero la televisione (e oggi anche internet e gli altri mass media). Questa nuova visione ha distrutto la capacità dei singoli di porsi le domande giuste, in questi ultimi trent'anni soprattutto ha lentamente distrutto il pensiero critico dei soggetti. Eliminando le "domande", la visione rettangolare ha distrutto il più valido strumento di crescita personale, che permetteva di allargare lo sguardo al di là del singolo problema per ritrovare la soluzione più efficace e duratura.
Nella Torah (nella Bibbia, nel Coran), Dio domanda all'Uomo non "cosa hai fatto", ma "dove sei". Questa domanda si ritrova in altri 3 passi della sacra scrittura e viene sempre tradotta non in "perchè" ma in "come mai". Il "perchè" cerca la responsabilità negli altri al di fuori di noi stessi, quindi in un certo senso deresponsabilizza l'Uomo e lo porta a proiettare sugli altri i propri problemi, intrappolando in una logica di autogiustificazione morale che lo conduce a compire azioni immorali (come gli eccidi e il razzismo).
Mancando questa visione critica, questa capacità di porsi le domande "giuste", l'individuo non riesce più a capire i meccanismi che muovono la realtà di ogni giorno; tutto ciò che accade nel mondo è quindi calato nella realtà in cui viviamo e quindi non riusciamo a capire cosa significhi per un ebreo riposarsi il sabato anzichè la domenica, e cosa significhi per una donna musulmana coprirsi il capo con un velo. Non riusciamo quindi a rimanere insieme anche se diversi, e la globalizzazione porta ad una omologazione di massa dovuta proprio a questa incapacità di comprendere e di convivere con queste differenze. La globalizzazione porta ad una fittizia uguaglianza basata sulla distruzione delle diversità per far posto ad una nuova morale che non lascia spazio all'individuo, che viene così fagocitato dalla massa e rimodellato secondo uno schema ben preciso e precostituito.