Il sottoportico con le porte delle celle di detenzione |
Ci sono storie facili da
dimenticare perché scomode o tragiche per i ricordi che fanno riaffiorare anche
solo risentendo i nomi dei protagonisti. Quando però una storia diventa così
violenta da lasciare un solco indelebile nella memoria di un collettività e di
un territorio, allora non esiste volontà o dolore capace di rimuoverla del
tutto. E’ questo il caso della Caserma Piave di Palmanova.
Se mai vi capiterà di camminare per
le geometriche strade della “città stellata”, gioiello dell’architettura
bellica veneziana, scoprirete che gli abitanti più anziani di Palmanova
mostrano ancora un certo timore non appena sentono il nome del fiume reso
famoso dalla Grande Guerra. Nelle loro menti è ancora lucido il ricordo di
quelle urla strazianti che provenivano dalle celle di tortura della Caserma del
Capitano delle S.S. Pakibus. Flagellazioni, torture, impiccagioni, se le mura
della Caserma Piave potessero parlare racconterebbero delle storie così
terribili da far rivoltare lo stomaco a noi giovani che la guerra siamo abituati
a vederla romanzata al cinema.
Molte di quelle storie tragiche
sono ancora leggibili sulle mura delle celle della Caserma, attraverso le
scritte che i giovanissimi detenuti (l’età media del combattente partigiano era
di 22 anni) hanno lasciato come monito per coloro che li avrebbero seguiti in
quel girone infernale. La più terribile di queste era la cosiddetta “cella
paradiso”, così rinominata perché una volta entrati si era sicuri di non uscirci
più vivi.
L’Associazione Nazionale Partigiani
d’Italia, l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, la
Coop Consumatori e il comune di Palmanova, hanno deciso di allestire proprio in
questo luogo il Museo Regionale della Resistenza perché dimostri una volta per
tutte quanto sia falso quel motto che dice che il Fascismo è il cugino buono del
Nazismo. Anche se il comandante Pakibus era agli ordini diretti del Terzo
Reich, i suoi aguzzini come i repubblichini della “banda Ruggero” o il milite Piccini, erano italiani ufficialmente inquadrati nella polizia territoriale della Repubblica di Salò, ma
in realtà desiderosi solo di sfogare la propria violenza contro quei partigiani
che consideravano traditori dell’Italia Fascista.
Un museo che prendendo spunto dal Museo della Resistenza di Torino, cercherà di trasmettere ai visitatori e alle scolaresche le storie, le sofferenze e i valori che hanno animato le migliaia di friulani che hanno combattuto per la liberazione dal nazi-fascismo, e che permetterà di capire quanti sacrifici sia costata la nostra democrazia e perciò quanto importante sia conservarla e proteggerla dalle derive autoritariste e populistiche che, soprattutto in periodi di crisi economica come questi, cercano di delegittimarla, seguendo quello stesso schema che negli anni Venti i fascisti usarono contro la fragile democrazia dell'Italia Liberale.